È noto a tutti
come l'alleanza, e soprattutto le parole dell'alleanza, abbiano rappresentato
per molto tempo dei riferimenti costitutivi per la vita associata di Israele: il
decalogo non è finalizzato alla vita privata, ma alla vita associata. E come il
popolo di Israele ha avvertito l'esigenza di darsi un codice etico, cioè di
individuare dei valori civili su cui costruire la propria convivenza, così
anche oggi esiste la medesima necessità.
Il quadro odierno
è però ben diverso, perché oggi risulta più difficile individuare dei valori
comuni: stiamo vivendo infatti una crisi profonda, che attraversa non solo la
politica, ma, più in generale, anche la cosiddetta «società civile» nel suo
complesso. Oggi si tende a contrapporre politica e società civile, come se la
prima fosse il ricettacolo di ogni male (vedi tangentopoli e dintorni) e la
seconda invece un esempio di pulizia e di perfezione. A dire il vero, se la
politica spesso si sviluppa in senso clientelare, è perché a monte esiste una
società civile fatta di persone che accedono ai politici in termini
clientelari, anche se poi spetta ai politici correggere questa rotta. In realtà,
come vedremo, la crisi della società e della politica è ben più profonda di
quanto abbiano fatto emergere tangentopoli o la contrapposizione tra i due poli.
Articolerò
quindi la mia riflessione in due momenti: dapprima, un'indagine sulla crisi,
ponendo in rilievo il fatto che non si tratta solo di una crisi istituzionale,
cioè una crisi di ridefinizione delle regole, ma di una crisi di valori, di
punti di riferimento condivisi; in un secondo momento, cercherò di individuare
le piste per il superamento della crisi, cioè su quale ethos collettivo sia possibile rifondare la convivenza civile e
rinnovare le istituzioni e la politica, in tutte le loro espressioni.
1. Che la crisi odierna tocchi profondamente il livello dell'etica
è un dato di fatto che non ha quasi bisogno di essere provato. Faccio solo un
esempio. Si pensi a come si sia determinato, in questi ultimi decenni, un
profondo capovolgimento di prospettiva nei rapporti tra le tre aree (quella
cattolica, quella laica, quella socialista) che da sempre hanno costituito il
tessuto connettivo della nostra società. Nell'immediato dopoguerra queste tre
aree si contrapponevano tra loro dal punto di vista ideologico; e tuttavia, a
fronte di questa forte contrapposizione ideologica, vi era il riconoscimento di
valori etici comuni, che ha consentito, tra l'altro, di costruire quell'imponente
edificio (etico prima ancora che istituzionale) che è la carta costituzionale.
Non a caso, la prima parte della Costituzione, quella in cui vengono definiti i
diritti fondamentali, è nata in modo abbastanza rapido.
Oggi la
situazione è opposta. Non c'è più contrapposizione ideologica, o quantomeno
essa si è molto stemperata, eppure si fa sentire in modo più consistente uno
sfilacciamento tra sistemi proprio sul versante etico, e parlo di sistemi laici,
non certo di sistemi religiosi. Ciò accade perché, non esistendo più né
un'etica comune né una cultura omogenea, si fa strada un pluralismo di sistemi
valoriali, tra loro non comunicanti e incapaci di far convergere verso un comune
denominatore su cui costruire la vita associata. Del resto, se ci si sposta dal
terreno socio-culturale al versante più propriamente teoretico, ci si rende
conto sempre più che i problemi dell'etica pubblica, della politica,
dell'economia e del diritto vengono affrontati ritornando a teorie
neoutilitaristiche e neocontrattualistiche, che sono la più chiara denuncia
della mancata convergenza intorno a valori comuni. E allora se ciò che conta è
il consenso sociale dato a norme, o a "regole" del gioco, se il
criterio di giudizio è semplicemente la massimizzazione dell'utilità sociale,
è perché non ci sono più valori comuni; certo, è necessario convergere su
regole comuni, ma una convergenza sulle regole che prescinda dal riconoscimento
di diritti che vanno al di là delle regole, cioè diritti riconosciuti da
tutti, qualsiasi sia il sistema politico, denuncia proprio la profonda crisi
etica della società odierna.
Fatta questa
rapida descrizione della crisi, vorrei dire qualcosa circa i fattori che l'hanno
prodotta, fattori sociali e culturali che non riguardano soltanto gli assetti
esterni della convivenza civile, ma più profondamente la coscienza individuale
(si pensi solo allo sconvolgimento della coscienza prodotto dal progresso
tecnologico!). È nel contesto di queste trasformazioni che occorre collocare la
crisi dei valori comuni e delle evidenze condivise. Mi limito ad accennare a
quattro fenomeni.
a) Anzitutto, il fenomeno della complessità sociale. Da una società in cui vigeva la
contrapposizione fra classi ben definite, ognuna con una forte tensione
ideologica, con la propria prospettiva di bene collettivo, con i propri ideali
che tendeva a far valere per l'intera società, si è passati ad una società
complessa, caratterizzata dal moltiplicarsi delle appartenenze (e quindi dal
loro stemperarsi), dal costituirsi al posto delle classi sociali delle
corporazioni (la nostra società è neocorporativa). La differenza tra
"classe" e "corporazione" consiste nel fatto che, mentre la
classe, possedendo una sua "ideologia", cioè un suo concetto di bene
collettivo da realizzare, si muove sull'onda della realizzazione di questo
ideale, la corporazione è invece un aggregarsi di soggetti che tendono a
difendere i propri interessi: alla logica
dell'ideale da perseguire, sia pure impazzito, si contrappone la logica
dell'interesse da difendere. Da una società compatta, unitaria,
attraversata da conflitti ideologici laceranti, si è passati ad una serie di
soggettività sociali indifferenziate che generano una profonda frantumazione
del tessuto sociale, perché a guidarle non è più la logica del bene
collettivo, ma quella dell'interesse personale.
Tutto ciò non può
che avere conseguenze sulla concezione della politica, una politica sempre più
corporativa. Il rischio di una politica corporativa è che vengano sostenuti gli
interessi delle categorie forti e penalizzati gli interessi delle categorie
deboli. Ma il rischio è anche la progressiva avanzata di forme di autoritarismo
e di politica-spettacolo: se l'obiettivo è di essere abili nella difesa degli
interessi corporativi, quello che conta è il carisma del capo. La politica
dell'immagine è la conseguenza del frantumarsi della società civile in un
coacervo di interessi differenziati che hanno bisogno di essere mediati
politicamente. Da qui nasce la cosiddetta politica dello scambio: se ciascuno ha
di mira il proprio interesse, il compito della politica è quello mediare i vari
interessi.
b) Un secondo fenomeno, strettamente legato al primo, è la crisi
delle ideologie. Pur essendo di per sé un fatto positivo, specialmente se
si ha a che fare con ideologie totalitarie, bisogna anche riconoscere che la
critica serrata alle ideologie ha fatto spazio ad una politica del tutto
aprogettuale (assenza di ideologia significa assenza di progetto). Se è vero
che l'ideologia contiene in sé il rischio di diventare Weltanshauung,
cioè interpretazione globale della realtà, è anche vero che la negazione di
ogni ideologia rischia di condurre ad un'ideologia altrettanto totalizzante, cioè
l'ideologia della non-ideologia.
Sul versante
politico, allora, il rischio è di puntare tutto sull'aspetto pragmatico,
rincorrendo le emergenze o muovendosi nella direzione della soddisfazione dei
bisogni delle corporazioni forti e quindi non assolvendo alla funzione
fondamentale della politica, che è quella di difendere i diritti di tutti.
c) La crisi delle ideologie ha prodotto una sorta di cultura
della soggettività selvaggia, una cultura in cui è centrale il soggetto e
i suoi bisogni. Anche in questo caso, se si tratta certamente di un fenomeno
positivo, specialmente al cospetto di ideologie massificanti, il rischio è che
la soggettività, lungi dall'aprire ai rapporti e alle relazioni, sia vissuta
nella direzione di un individualismo spregiudicato, che va di pari passo con le
tendenze neocorporative di cui parlavo e che accentua ancor più la
frantumazione del tessuto sociale.
In questo
contesto, la politica tende a diventare sempre più plebiscitaria: i singoli
individui si identificano nel capo carismatico visto come l'immagine di ciò che
essi vorrebbero essere in termini di riuscita economica, di prestigio sociale e
di potere.
d) I fenomeni sinora descritti (la complessità sociale, la crisi
delle ideologie, la soggettivizzazione esasperata) si svolgono all'interno di
una realtà sempre più secolarizzata.
Si noti che, mentre negli anni Sessanta la secolarizzazione era vista
soprattutto come crisi del sacro, come recupero di autonomia da parte
dell'essere umano nel mondo ("l'uomo adulto" di Bonhoeffer), come
riscoperta del valore autentico della fede deputata a rispondere agli
interrogativi ultimi dell'esistenza, oggi la secolarizzazione è vista non tanto
come crisi del sacro, ma come crisi del senso, del fondamento, delle radici. Il
problema della secolarizzazione non si pone più come crisi dell'orizzonte
religioso, ma come crisi dell'orizzonte dentro cui è possibile elaborare
un'etica collettiva, perché l'etica o è risposta a domande di senso e di
fondamento comune oppure è semplicemente ricerca di regole del gioco attorno a
cui convergere per ragioni utilitaristiche. La radice della crisi etica della
società odierna sta proprio nell'assenza di valori riconosciuti come risposta a
domande di senso. Oggi infatti si parla molto di regole, ma poco di etica.
2. Descritta sommariamente la crisi, veniamo ora al che fare. Indico
tre prospettive di riflessione.
a)Una prima esigenza consiste nel recupero di un'istanza etica. A
questo proposito, vorrei ricordare una frase di Th. Adorno, tratta da un suo
libro intitolato Minima moralia: «o
la politica torna a fondarsi su un principio di redenzione sul mondo oppure
diventa una pura tecnica di conservazione o di rafforzamento del potere da parte
di chi già lo detiene». Il principio di redenzione sul mondo di cui parla
Adorno significa la necessità di un recupero di una forte istanza etica,
altrimenti la politica diventa puro esercizio di potere, pura tecnica, pura
ingegneria istituzionale. Cos'è l'evento dell'esodo se un principio di liberazione sul mondo?
Come è possibile
passare da questa istanza all'elaborazione di valori comuni? In passato, il
percorso appariva più agevole; non a caso il fondatore di un'etica laica
fondata sulla ragione è stato Kant, il quale pensava che la ragione godesse di
una validità universale per cui i valori potevano essere dedotti e quindi
immediatamente riconosciuti da tutti. Oggi, invece, siamo passati dalla ragione
alle ragioni, le quali danno luogo a sistemi etici profondamente
differenziati tra di loro; ne consegue che la via per il recupero di questi
valori non può più essere deduttiva, come in Kant, ma induttiva; dev'essere
quella che Habermans chiama la via dell'etica della comunicazione, nella
consapevolezza che nella comunicazione tra diversi sistemi etici è possibile
arrivare a qualcosa di comune. Solo il confronto fra le ragioni, se avviene in
modo autentico, può condurre ad un minimo o -perché no?- ad un massimo di
ragione.
Riconoscere i
valori, però, non significa semplicemente riconoscersi in alcuni valori
astrattamente considerati (su valori come giustizia, libertà, solidarietà
siamo tutti d'accordo); si tratta piuttosto di dare a questi valori dei
contenuti omogenei e, più ancora, di collocare questi valori in una scala
gerarchica ordinata in modo tale da risolvere i potenziali conflitti (si pensi
al classico conflitto tra libertà e giustizia). Non basta sostenere il diritto
alla libertà, ma bisogna creare le condizioni per cui tutti possano godere di
questo diritto. Mentre, per esempio, i diritti di libertà vissuti nell'ottica
individualistica tipica del liberalismo valevano solo per coloro che erano in
grado di farli valere, la Costituzione afferma all'inizio che la Repubblica è
fondata sul lavoro, il che equivale a dire che non è fondata sul censo.
b)La seconda prospettiva per recuperare un ethos
socio-politico è di riprendere seriamente in considerazione la questione della
progettualità dell'agire sociale e politico. Io sostengo la necessità di un
recupero dell'ideologia, intesa non tanto come sistema totalizzante e
autoritario, ma come un progetto per la prassi, un progetto che presuppone una
chiara visione. Si tratta insomma di operare una rivisitazione dell'ideologia,
cioè una restituzione alla società e alla politica di un progetto.
All'interno del
recupero dell'ideologia, ci sono però alcuni nodi da sciogliere. Il primo è la
mediazione tra il personale e il sociale: bisogna certo porre attenzione agli
interessi individuali, ma bisogna anche operare una mediazione tra interesse
personale e interessi collettivi. Se è vero, come dicevano per esempio le
femministe, che il personale è sociale, è anche vero che il sociale deve
personalizzarsi, deve cioè tenere conto di alcuni bisogni soggettivi (si pensi
ai tempi della città, ai tempi della vita, ai tempi del lavoro). La politica
pertanto non deve essere concepita in senso puramente istituzionale, ma al
servizio di bisogni soggettivi. Come dice Paul Ricoeur, il personalismo deve
recuperare, accanto alla relazione intersoggettiva dell'io-tu, anche la
dimensione del tu anonimo, quel tu con il quale magari non si entrerà mai in
contatto direttamente, ma di cui si deve essere responsabili creando per lui
delle strutture giuste.
Il secondo nodo
è quello del rapporto tra principio di suussidiarietà e principio di
solidarietà; qui siamo nel cuore del magistero sociale della chiesa cattolica,
la quale, sia pure con oscillazioni tra principio di suussidiarietà per
tutelare dalle tendenze prevaricatrici dello stato (gli enti intermedi) e
principio di solidarietà (Populorum
Progressio) perché le istanze di bene collettivo sembravano diventare
prevalenti, ha indicato una via che oggi viene rivalutata. In sostanza, si
tratta di recuperare un equilibrio tra primato della società civile e la non
residualità dello stato, cioè integrazione tra società civile e società
politica, con il riconoscimento reciproco della necessità l'una dell'altra.
C'è poi la
necessità del recupero di una concezione allargata della politica, la quale non
può essere ridotta all'impegno dei partiti e delle istituzioni tradizionali,
perché la politica ha una sua trasversalità che deve essere rimessa in
circolazione nei rapporti tra politica in senso stretto, società e forme di
presenza individuale o associata (volontariato): ognuna di queste sfere va
rispettata nella sua autonomia, ma occorre recuperare dei valori dialettici
positivi che concorrano al raggiungimento di un bene collettivo, che sia il
frutto dell'interazione di queste diverse istanze della vita associata.
c) La terza prospettiva è quella delle regole. Se da un lato non si
deve pensare, come fanno le etiche utilitaristiche, di risolvere la crisi etica
ricorrendo solo alle regole, dall'altro non deve neppure sfuggire l'importanza
delle regole. La politica non è fatta solo di fini, ma anche di mezzi, non solo
di grandi obiettivi, ma anche di strumenti per il loro perseguimento, altrimenti
gli obiettivi rimangono astratti. Ciò implica alcuni ripensamenti.
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La ridefinizione del ruolo dei partiti: da centri di potere devono diventare
interpreti dei bisogni delle fette di società che rappresentano.
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La ridefinizione dei rapporti tra partiti e istituzioni: c'è il rischio che i
rappresentanti delle istituzioni concepiscano i partiti come una palla al piede,
anziché come strumenti di controllo democratico.
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La ridefinizione del rapporto tra partecipazione, consenso, rappresentanza e
decisionalità: colui che governa non può essere anche il controllore del
proprio governo (un deputato che diventa ministro, per esempio, è al tempo
stesso controllato e controllore). Si tratta insomma di individuare delle regole
che siano funzionali ad un corretto funzionamento dei rapporti tra le
istituzioni e che al tempo stesso garantiscano gli equilibri tra consenso,
rappresentanza e governabilità.
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La ridefinizione del rapporto tra politici e tecnici: la tecnicizzazione sempre
maggiore dei problemi e l'assegnazione ai tecnici di competenze che prima non
avevano (si pensi alla legge Bassasini) hanno certamente risolto molte cose, ma
hanno messo in discussione il controllo dei politici sui tecnici. Anche qui si
tratta di trovare un equilibrio.
In conclusione, possiamo dire che il
discorso sulle regole è sicuramente importante, perché, come abbiamo visto, la
complessità delle situazioni sociali in cui siamo immersi esige regole sempre
più sofisticate, sempre più capaci di creare equilibri tra i poteri, di
individuare dove e come ci si muove sul terreno sia amministrativo sia politico;
e tuttavia esso va collocato non solo nella complessità sociale, bensì nella
riflessione sul progetto e, prima ancora, sull'istanza etica fondamentale e sui
valori comuni. Solo a queste condizioni -io credo- sarà possibile restituire
alla società di oggi e alla politica un ethos
che sia capace di interpretare i bisogni di ciascuno e di tutti e di proporre
una società più giusta e più umanizzata, in grado di offrire ad ogni essere
umano prospettive di crescita e di autentica liberazione.
Conversazione
tenuta presso la Fondazione Serughetti La Porta il 20 novembre 2000
Testo
non rivisto dall’Autore
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